L'ANALISI

Ecco perché si deve insistere sullo scandalo Rupnik

Ascolta la versione audio dell'articolo

Non è il peccato del prete-artista che ci sconvolge, per quanto grave sia. Ci indigna invece il sistema e la trama di coperture che non solo ha permesso 30 anni di abusi, ma che continua nell'opera di protezione e copertura. 

Ecclesia 22_02_2023
Padre Rupnik

Perché insistere tanto sul caso Rupnik? Voglia di infierire su un peccatore, senza alcuna misericordia, una volta che il suo peccato è venuto alla luce? Ricerca di un capro espiatorio su cui concentrare l’indignazione per tutte le colpe di preti e religiosi che si sono macchiati di abusi?

Assolutamente no. Il vero problema è il sistema e le persone che non solo hanno permesso questo, ma che continuano a manipolare i fatti, a creare diversivi, a eludere domande, per ottenere un duplice scopo: punire nel modo più leggero possibile il protagonista della vicenda e mantenere intatto il sistema di corruzione e clientela che lo ha coperto per 30 anni (il documento diffuso il 21 febbraio dai gesuiti dice espressamente che gli abusi sono stati consumati dagli anni ’80 fino al 2018). Esattamente come è già accaduto nel caso dell’ex cardinale Theodore McCarrick: lui ha pagato (con colpevole ritardo) con la riduzione allo stato laicale, ma chi lo ha protetto per tanti anni o ne è stato complice non solo è restato al suo posto ma ha addirittura fatto carriera.

Nel caso di padre Marko Rupnik, lo scandalo è anche più grande proprio per il ruolo che il gesuita sloveno ha avuto in questi decenni: i suoi lavori artistici sparsi in tantissime chiese e santuari, la sua infaticabile attività di predicazione e direzione spirituale, oltre che la sua presenza a Roma e l’assidua frequentazione dei piani più alti del Vaticano.

È uno scandalo che smaschera l’ipocrisia, se non la strumentalizzazione, di certi slogan sulla tolleranza zero per gli abusi sessuali e dell’invito a una maggiore trasparenza, ribadito da papa Francesco nella conferenza stampa sull’aereo di ritorno dall’Africa, purtroppo mentre nello stesso momento mescolava le carte sul caso Rupnik. È un atteggiamento sfacciato che mortifica e umilia le vittime, che confonde quanti hanno seguito in questi anni padre Rupnik come maestro, e che non può non addolorare i fedeli che vedono così interrotto quel cammino di purificazione che pure il cardinale Ratzinger-papa Benedetto XVI aveva efficacemente avviato nella Chiesa.

No, non è il peccato di un sacerdote famoso e potente che ci sconvolge, per quanto grave sia. Siamo tutti peccatori e sappiamo che certe cose purtroppo possono accadere. Il male è una realtà e non pensiamo certo che la Chiesa sia o debba essere una società di perfetti. Ma ci indigna il castello di menzogne che ci viene propinato da coloro che sono nella posizione di giudicare e provvedere avendo a cuore il bene delle vittime, dello stesso sacerdote abusatore, e dei fedeli a cui non deve essere data occasione di scandalo. Ci indigna che oggi si ergano a giudici misericordiosi e attenti al bene anche del peccatore, coloro che per decenni ne hanno assecondato le perversioni: anche costoro dovrebbero essere dalla parte degli imputati, non certo del pubblico ministero. E ci indigna che quanti hanno fatto passare nella Chiesa il concetto che gli abusi siano figli del clericalismo (linea peraltro contestata da Benedetto XVI) oggi siano l’esempio più eclatante del peggior clericalismo e dell’abuso di potere.

Menzogne, abbiamo detto: basta leggere con attenzione il comunicato dei Gesuiti di ieri. Si parla quasi fosse la prima indagine svolta su padre Rupnik, come se le precedenti accuse, lasciate cadere per prescrizione dei termini, e la scomunica comminata e poi rimossa in tempo record in circostanze mai chiarite, non fossero esistite e non costituissero un problema. Sono talmente consapevoli della menzogna, i vertici Gesuiti, che hanno evitato una conferenza stampa affidando dichiarazioni pilotate a due testate, Repubblica e Associated Press, per evitare domande scomode. E menzogne anche sulla scomunica: il generale dei Gesuiti, padre Arturo Sosa, aveva detto in dicembre che la scomunica era stata tolta perché padre Rupnik si era pentito (fosse anche stato vero, si trattava comunque di un iter quantomeno singolare, per non dire altro); ora invece veniamo a sapere che Rupnik non solo non si è mai pentito ma ha anche rifiutato di rispondere ai suoi confratelli che hanno indagato sulle denunce contro di lui.

E allora torna la domanda che da tre mesi continuiamo a proporre: cosa è davvero successo con la scomunica, certamente inflitta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e che solo il Papa poteva togliere? Dal comunicato della Compagnia di Gesù si comprende quale sia la strategia: comminare una qualche sanzione a padre Rupnik, facendo in modo che tutto resti chiuso e si risolva all’interno dell’ordine dei Gesuiti, evitando così che siano chiamati a dare spiegazioni imbarazzanti altri due Gesuiti, il prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, monsignor Luis Francisco Ladaria, e papa Francesco.

Pensano in questo modo di essere furbi, invece perdono solo credibilità e feriscono la Chiesa, rendendola ancora più vulnerabile nei confronti di chi vorrebbe distruggerla.